Nel 2011 fui invitato ad esporre al Padiglione Veneto della 54ª Biennale di Venezia e, in quell'occasione, partecipai al vernissage della mostra a Villa Contarini di Piazzola sul Brenta. Durante l'evento, uno dei curatori della commissione selezionatrice mi cercò trafelato: "Sgarbi ti vuole parlare".
Trovai Vittorio Sgarbi pensieroso dinnanzi alla mia opera. Mi rivolse alcune domande, chiedendomi il perché di determinate scelte compositive.
L'opera consisteva in un’installazione in divenire che, partendo da un dipinto applicato alla parete con del nastro adesivo da imballaggio (ben prima delle banane-luxury), sviluppava una narrazione progressiva destinata a evolversi fino alla fine della mostra.
Essa, chiarii, prevedeva un doppio. La finitezza meditata e stratificata del quadro, realizzato con la tecnica manuale della pittura dai lunghi tempi esecutivi, contrastava con un gesto fulmineo, simile a quello di chi sigilla pacchi in un magazzino di spedizioni.
Inoltre, il nastro adesivo eliminava la fissità di cornici, chiodi e attaccaglie, collocando l'opera in una rete mobile, suscettibile di successive integrazioni e sviluppi.
L’installazione enfatizzava la dimensione dei termini temporali dell’esposizione, conferendo agli ultimi giorni prima del finissage un valore inedito: il personaggio d'invenzione raffigurato (non dunque un ritratto figurativo) se ne sarebbe andato a fine mostra, voltando le spalle allo spettatore.
Ecco come, in un post del mio blog, illustravo il progetto:
"Chi visiterà, in questi ultimi giorni d’apertura, il Padiglione Italia - sezione Veneto (Villa Contarini - Piazzola sul Brenta), troverà la mia opera (in divenire) modificata.
Il quadro applicato a parete tramite nastro adesivo è sì figurativo, ma rappresenta un personaggio d’invenzione, una delle presenze che popolano il mio immaginario: un ragazzino dsllo sguardo stranito con uno smile sulla maglietta rossa.
A fine mostra ho aggiunto all’installazione 1 disegno che lo raffigura allontanarsi di spalle, andandosene solitario per le calli di Venezia".
Da qui l'assai sgarbiana definizione di "pittura dei cerotti" per l'opera, che mi fu riferita...
Inutile negarlo: l’approccio di Sgarbi, attento e curioso, al di là del contesto, mi sorprese. Negli anni, ho potuto constatare come molti critici e curatori (e ne ho incontrati parecchi) raramente s'interessano davvero alle motivazioni o alle premesse teoriche di un lavoro. Come se le conoscessero già o le dessero per scontate, o peggio ancora, come se bastasse la prima impressione per decretare un giudizio. Salvo poi dimostrare, spesso, di non averne colto le premesse teoriche, oltre che il senso...
Chi opera oggi nel circuito dell’arte contemporanea sembra ossessionato dall’autorevolezza: teme in modo eccessivo la critica dei sui pari, specialmente quando le proprie scelte si discostano da modelli teorici consolidati o appaiono azzardate. Eppure, il nuovo si costruisce anche attraverso il tentativo, l’errore, la deviazione.
No, per capire un'opera non basta un'occhiata...
>>>è un testo e correzioni in via di stesura.
Punti da sviluppare:
- l'artista come teorico?
- il fare creativo (la palestra) e la sfida teorica (la scacchiera)
- quando la critica gioca in palestra
- la scacchiera sul tavolo
- toccare / pensare
- Quando Sgarbi ti domanda perché (l'unico a farlo)
>>>è un post-in-progress >>>testo e correzioni in via di stesura.
