Thursday, March 14, 2013

Il saggio-groviera "L'arte contemporanea" di Angela Vettese (Il Mulino)



Già i primi capitoli esordiscono condensando opportunamente in poche battute i consueti pregiudizi critici. Nel riportare cinque edizioni consecutive del Padiglione Spagna della Biennale, tra le metafore d'installazioni e progetti collettivi, ecco l'unica opera di cui non viene spiegato il significato: "Nel 2009 Barcelò ha esposto grandi quadri di stampo neoespressionista, molto apprezzati dal mercato e dalla critica più conservatrice". Quando c'è di mezzo la pittura Vettese sembra sospendere le sue capacità cognitive.
Che cosa rappresentavano i lavori di "stampo neoespressionista" di Barcelò? Ullellé ullallà faccelo capì faccelo spiegà!

Del resto, possiamo immaginare un atteggiamento più conservatore dello scegliere la Biennale di Venezia come esempio di "quanto gli approcci all'arte possano essere diversi"? Alla Biennale da un artista ci si aspetta obbligatoriamente il "nuovo" istituzionalizzato, in spazi "di stato" fin dal nome. Errato considerare l'opera come unica variabile su cui focalizzare l'attenzione definitoria della critica; oltre e prima di essa vi sono il ruolo sociale dell'artista, lo spazio-luogo in cui l'opera va contestualizzata che può essere esterno al sistema dell'arte istituzionale e quindi corrispondere a una diversa funzione (l'underground e la galleria privata sono assai diversi da un padiglione della Biennale), il pubblico a cui si rivolge, la dialettica cultura ufficiale vs controcultura, quei segmenti del mercato dove il pubblico ha una funzione attiva e non solo di passiva fruizione.

Si tratta sostanzialmente di ampliare la visuale oltre certi spazi deputati a una sperimentazione di rito, scontata, puramente stilistica, recinti tanto simili a zoo dove l'animale selvaggio chiamato "arte" viene esibito sapendo benissimo che lì ogni sua potenziale carica di radicale alterità è già disinnescata fin dall'inizio. Tra quelle sbarre ogni ruggito fa spettacolo, produce entertainment utile ai guardiani con le chiavi delle gabbie in tasca.
Le 5 edizioni del Padiglione Spagna prese in esame da Vettese, quindi, non spiegano affatto "quanto gli approcci all'arte possano essere diversi" poiché ne rappresentano uno soltanto, quello dell'arte nella sua condizione iper-istituzionalizzata all'interno della quale Vettese fa delle distinzioni sullo stile e la pratica artistica adottata, non certo di "approccio all'arte". L'asse su cui va centrato il giudizio critico in tali contesti assolutamente iper-istituzionali e ufficiali è quello dell'autentico/inautentico.
Non sono certo la pratica artistica o la tecnica utilizzata a determinare le variabili innovazione/conservazione: un attore può recitare a teatro e contemporaneamente in un film con tecniche recitative differenti, assurdo pensare che il film sia di per sé più "innovativo" perché più tecnologico dei tavolacci di un palcoscenico.

Abbiano già una preview dello stile dell'autrice: l'utilizzare una terminologia critica spostata (qui approccio anziché pratica) collocandola in un contesto di cui vengono omesse informazioni fondamentali.

Le tesi di Vettese sono qui come altrove viziate da un assunto provocatorio-dissacrante deliberatamente manipolatorio. Con tante contraddizioni.
"L’opinione corrente tende a identificare l’arte contemporanea con l’astrazione, ma sarebbe un errore pensare che abbia abbandonato la figurazione. Al contrario, come abbiamo visto, quest’ultima ha continuato a rimare viva".

A pag 103 troviamo una tesi opposta: "Noi crediamo di capire l’arte antica perché presenta più figure dell’arte contemporanea. (…) Non basta il catechismo, che peraltro un cinese non conosce: occorre un po’ di teologia, note sul rapporto tra artisti e committenti, qualche nozione storica".
Eppure il medesimo errore di pressappochismo nel sovrapporre la figurazione e la storia sacra al contemporaneo riaffiora a pag 52: "L’effetto di spaesamento e di elevazione dell’anima che si voleva ottenere con le cupole del Cristo Pantocratore in mosaico, con il fondo dorato e luminescente, non è incompatibile con ciò che ha cercato di realizzare Don Flavin".
Parrebbe quasi una gag da osteria quella dell'arte che si capisce perché ha "più figure".
Alcuni generi artistici arrivano a parlare direttamente allo spettatore in quanto non necessitano sempre della mediazione dei supponenti critici-professori. La luce, il colore, il segno, la composizione, l'espressione somatica, il ductus pittorico, le matrici visuali scelte dal pittore rappresentano una grammatica certo diversa da quella verbale ma non per questo meno efficace. Esistono opere che prevedono e consentono più piani di lettura coerenti e conseguenti tra loro, altre meno; queste ultime richiedono stampelle, supporti e mediatori per essere fruite anche a un primissimo approccio.

Su Vezzoli, pag 55 – "Francesco Vezzoli è riuscito a convincere molte celebrities di Hollywood a girare per lui, con la guida del regista Gore Vidal, una sorta di trailer di un film dedicato a Caligola. (…) Tutti questi filmati parlano con una libertà che nessun film da distribuire nei cinema potrebbe mai sopportare".
Occorre essere un cinefilo per conoscere Io, Caligola, film dalle difficili vicissitudini produttive, in parte girato da Brass, con la sceneggiatura del noto scrittore - non regista! - Gore Vidal?
Ebbene, vorrebbe spiegare opere che essa stessa non conosce affatto! Una presunzione ben maggiore di quella del tanto vituperato "pubblico" dell'arte che secondo la supponente critica valuterebbe l'arte attraverso "emozioni immediate". I "pregiudizi immediati" sono i suoi e di chi come lei ragiona per etichette e schematismi, non del pubblico.

A pag 23 compare Carolyn Christof Bakargiev "Forse non abbiamo più bisogno di parlare di "arte contemporanea", e qualcuno come la curatrice di dOCUMENTA (13) CBB, potrà ritenere che si tratti di una categoria tipica del XX secolo" – infatti ha fatto ridere il pianeta con la sua attitudine di volersi sostituire ad artisti e opere mimando pose da venditrice di padelle televisiva.

Pag 103 - "Qualcuno può obiettare che l’arte antica ci offre un’emozione più immediata. Cosa falsa nella maggior parte dei casi, tranne che per qualche dipinto che descrive stati d’animo molto basici: la maternità, l’amore coniugale, lo stupore per la bellezza di un viso. Alzi la mano chi non si è stufato visitando un museo di arte antica nelle sale in cui non c’erano capolavori già noti". Leggendo paragrafi condizionati da una così spiccata vocazione iconoclasta viene logico domandarsi se l'autrice ami davvero l’arte. Sembrano sorretti da un’irrazionale, fanatica avversione per tutti quei fenomeni visivi lontani dalla sua specializzazione.
Alzi la mano chi non si è sorpreso dinanzi alla scoperta di capolavori di autori malnoti; evidentemente gli ignoranti si "stufano" quando nessuno gli ha insegnato come va letta un'opera.

Del resto da decenni gli storici dell'arte ci spiegano l'importanza dei generi artistici definiti "minori" e dei centri produttivi "minori"; esiti simili di approfondimento si sono registrati in tutte le discipline di studio, dalla critica letteraria a quella musicale e cinematografica. Riaffiora qui mal mimetizzata tra menzogne e facili provocazioni un'annosa questione: l'assenza di metodo dei vari "curatori" del contemporaneo nell'affrontare tutti quei fenomeni artistici lontani dal loro ristretto ambito di competenze, quindi l'assenza di una prospettiva storica. Vero rimane che, beffa nella beffa, le commissioni di premi, musei e fiere si fregiano dell'altisonante titolo di "comitati scientifici".
Identificando l'arte antica con lo stile degli "antichi maestri" dell'arte europea, Vettese rivela i condizionamenti del suo background culturale e la scarsa frequentazione con produzioni visive lontane da quella occidentale; inoltre l'assenza di una prospettiva storica determina una prassi di anti-metodo inaccettabile che favorisce il prevalere della propensione al rovesciamento dell'intera storia dell'arte appiattendola sulle aspettative, pratiche e stili attuali, quasi ne fosse appendice precedente e non la necessaria premessa, essendosi l'arte contemporanea "sostituita" a essa. Si annuncia quindi un sorprendente effetto terminale: la critica da terza media. E il "museo" d'arte contemporanea sembra qui una tabula rasa dove ridurre ogni prospettiva storica della cultura in cenere. Il ricorrere costantemente a un metodo antistorico per tamponare le tante falle d’impostazioni teoriche lacunose resta sicuramente il punto che più mina la loro autorevolezza e attendibilità.

L'incompetenza dei funzionari del contemporaneo per la corretta lettura e interpretazione formale del testo visivo (qualunque esso sia) costringe la prassi della critica entro i limiti di una verbalizzazione sull'opera in forma di narrazione; questo spiega anche il grande credito che costoro attribuiscono alle "narrazioni" sulle tecniche che "diventano" altre tecniche, sul virtuosismo del pittore "sostituto" da nuove prassi artistiche ecc... Quindi, in certo senso, la loro lettura dell'arte resta sempre "figurativa"; non sanno distinguere cosa sia virtuosismo e cosa no.
"Stati d’animo molto basici: la maternità, l’amore coniugale, lo stupore per la bellezza di un viso": espressione somatica e psicologica e valori luministici + chiaroscurali (la luce, notoriamente elemento molto commentato da chi visita i musei) sono omessi. Sembra qui stia scrivendo di fotografie di rivista fashion. Per Vettese, teorica del mediocre-pensiero da funzionario del contemporaneo in carriera, tutta l'arte "diviene" contemporanea, persino un dipinto del Seicento "diviene" un'opera contemporanea a cui tuttavia manca qualcosa. Proiettano sull'intera storia dell'arte gli stessi pregiudizi del presente.
"Alzi la mano chi non si è stufato visitando un museo di arte antica nelle sale in cui non c’erano capolavori già noti": barbarie culturale, anti-metodo. Davvero pensa che tutti siano insensibili come lei ai valori formali delle arti?

Siamo pericolosamente arrivati a Mona Hatoum - pag 98 -, pessima scelta per spiegare il rapporto opera-biografia. Del suo lavoro non convince il divario tra ciò che ci viene suggerito dalla lettura formale di opere mentali, ludiche, calcolate, che contrastano con una dichiarata poetica di sofferenza ed esclusione da esule nomade. Il racconto critico sull'opera qui non ne aiuta la comprensione, piuttosto ne condiziona la lettura in direzione prettamente letteraria.
Il "mappamondo di biglie" firmato Hatoum è l'ennesima versione di un'idea stravista, riproposta stavolta con un retrogusto umoristico evidente: ve lo vedete il curatore distratto scivolare sulla biglia dell'isola di Lanzarote?
Oooops! Di realmente sentito, in opere così calcolate, c'è ben poco.
Per farci un'idea del lavoro dell'artista Carsten Holler, invece, dovremmo sapere che "ha una laurea in agronomia". Preferivamo non saperlo. Vada a esporre alla Coldiretti.

Dopo aver descritto un lavoro di Richard Serra (pag 99) arriva una delle sue solite panzane:
"Il virtuosismo che una volta veniva mostrato grazie ad un sapiente uso della matita, del pennello, dello scalpello o del bulino è stato per lo più sostituito dalla rapidità e dalla precisione esecutiva delle nuove tecnologie o da un lavoro a più mani".
Consueto errore di porre in rapporto diretto tecniche e pratiche artistiche completamente differenti che nulla hanno in comune: la confusione tra tecniche antiche e moderne - fraintese qui per "generi" artistici - ha il solo, furbo scopo di trasferire sulle più recenti l'attribuzione di valore acquisita nel tempo dalle prime. Insomma, la professoressa come molti suoi colleghi, non l'ha capito: scrive di tecniche come se fossero generi artistici. La pittura non è un "genere artistico"! Una tecnica non "sostituisce" un'altra tecnica!
Sempre l'artista interagisce, interroga i materiali e i medium. Il virtuosismo non è conseguente al mezzo espressivo utilizzato. Qui Vettese confonde stile con virtuosismo.

E perché, tra la tecnica di 1 bulino e 1 pennello, non ci mette di mezzo anche la tecnica dello spazzolone da cesso?

Per spiegare i buchi neri del groviera stavolta chiameremo Hawking.
Nessun critico cinematografico cita continuamente lo scarto di tecnica recitativa della settima arte che "sostituisce" la recitazione teatrale, le differenze tra palcoscenico e set, azione scenica vs montaggio analogico, al contrario di quanto possiamo riscontare nel ciarpame teorico by Vettese o by Anna Detheridge. Costoro traggono dalla credulità e dabbenaggine di tanto pubblico dell'arte poco informato una costante rendita di posizione. Certo l'essere i corifei di un sistema dell'arte gerarchico e iperconservatore che vede allineati sulla stessa posizione tutti i poteri (politico, economico, universitario, fondazioni pubbliche e private, informazione, musei, marchi della moda ecc) non impedisce anche ai più incapaci La Palisse della critica di fingersi pensatori radicali e anticonformisti. Per farlo utilizzano modalità argomentative assolutamente fasulle. Qui, come si vede, la smisurata pretesa di profondità di mezze calzette atteggiate a intransigenti ammazzasette d'ogni banalità produce involuti contorsionismi argomentativi.
Inoltre sono critici vicini poco e male al quotidiano degli artisti; ma il sapere libresco e accademico senza osservazione diretta produce un mare di pregiudizi.

L'inquietante paragrafo "Quanto capiamo dell'arte antica?" (pag. 102) contiene altri esempi di terminologia spostata:
"Qualcuno pensa che nell'antico ci fosse ancora un'ancora di salvezza nel giudicare cosa fosse arte, o almeno degno di attenzione, attraverso l'esibizione di perizia tecnica. Ma allora dovremmo dire che sono arte anche un carretto siciliano e un armadio d'antiquariato". Infatti, lo sono. Non a caso nell'antiquariato viene definita Arte povera una certa tipologia di manufatti lignei differenti però dall'Arte Povera di Kounellis e Anselmo: la fenomenologia offerta dalle arti va sempre contestualizzata. Tale passaggio non conduce affatto a "una concezione di arte così inclusiva da essere quasi inutile", al contrario, certifica la necessaria distanza di chi si approccia a un linguaggio radicalmente differente da quello verbale. Prima di ogni interpretazione, l'arte visiva deve essere tradotta.
Analogamente, l'arte antica non va vista quale mera appendice precedente dell'arte contemporanea poiché ne contiene le fondamentali premesse cognitive, antropologiche e di sistema, senza le quali la contemporaneità e la modernità, dall'idea stessa di collezione, museo e di white box, non esisterebbero.
La perizia tecnica non deve essere confusa con lo stile dell'artista: torna qui l'errore di considerare pittura e scultura quali generi artistici, mentre sono di per sé mere tecniche che dalla perizia tecnica artigianale dell'imprimitura, stratificando in una compagine chiusa innumerevoli influenze, arrivano alla scrittura visiva del pittore e oltre. Pertanto quella che Vettese con la consueta rozzezza definisce perizia tecnica (che invece è lo stile) va connessa storicamente con il riconoscimento sociale dell'artista "firma", cognomen + nomen, nome d'arte ecc... dispositivo (ridefinito nella forma attuale nel Rinascimento) senza il quale Duchamp non avrebbe potuto vergare la sigla R.Mutt sull'opera, né Manzoni segnare a colpi di pennarello le modelle, né quelli dell'Arte Povera strutturare una poetica in sottrazione fino allo stato di natura sommandovi tuttavia il marchio dell'artifex. Qualche critico letterario ha mai affermato che la qualità di uno scrittore si riconosce dalla correttezza sintattica?

Riassumendo, a un primo spostamento nell'uso della terminologia critica (perizia tecnica anziché stile) ne segue un secondo (la perizia tecnica collocata in una prospettiva antistorica), e un terzo (una pratica artistica erroneamente opposta a un'altra pratica artistica).

Basterebbe, ma il partito preso non la trattiene di andare oltre: nel caso Arbasino / Vettese ne subentra un quarto. I successivi spostamenti, in un climax manipolatorio progressivo, deflagrano e contrappongono polemicamente addirittura discipline artistiche completamente diverse.

Le medesime assurdità che ritroviamo in "Capire l'arte contemporanea" edito Allemandi: "Parametri tradizionalmente accettati come la perizia esecutiva, l'armonia formale, la verosimiglianza, la bellezza sono stati resi desueti dalle avanguardie del primo Novecento".

A questo punto il lettore di Tranqui2 può domandarsi quale sia il motivo di una critica così serrata. Per venire al cuore della questione: un gran numero di personaggi simil-Vettese sta utilizzando la facile visibilità datagli dall'occupare altisonanti quanto retoriche cariche gerarchiche negli apparati burocratici delle istituzioni d'arte per arrecare danni anche in altri ambiti, facendone una sorta di barricata dalla quale tirare sputi a chi pone qualche intoppo alla loro espansione lobbistica.
Basti citare il caso Vettese / Arbasino dove senza tanti preamboli la Signora utilizza i consueti ragionamenti capziosi per liquidare con due battute l'eccezionale articolo firmato da uno scrittore troppo intelligente per i suoi parametri (e dimostrando di non capir nulla di un gigante della letteratura italiana) giacché poco inscrivibile nell'asfittica eterna categoria artistica di un didascalico less is more utile a tanti falsi critici per simulare rigore.

Nel saggio edito dal Mulino incontriamo a ogni pagina la ricerca dell'effetto intellettualistico a sorpresa, il voler risolvere ogni nodo teorico con una battuta, uno slogan stupefacente. La logica che lo governa non è analitica ma - ingenuamente - classificatoria, una ricerca estenuata ed estenuante di etichette, stereotipi.
Ancora, il continuo sovrapporre l'arte antica con quella degli antichi maestri dell'arte europea non deriva dal considerare quella produzione quale paradigmatica per l'intera storia dell'arte; semplicemente essa ha generato la nostra nozione attuale di museo nella quale la parte più retriva della critica ha incistato quella burocratica e gerarchica dell'ossimorico "museo contemporaneo".
Again Bakargiev a pag 77, quasi fosse la grande intellettuale del secolo e non una firma del "suo" Sole 24 Ore, come Scardi che fa capolino a pag 122.

Il volume a cura di Cristina Baldacci e Clarissa Ricci di cui si parla a pag 108 (provate a indovinare chi ha scritto l'introduzione di quest’assurdo saggio?) raccoglie interventi nati nell'ambito del dottorato in Teorie e Storia delle Arti dello IUAV Venezia, dove sappiamo che Vettese non è esattamente un'estranea, come non lo è alla collezione Panza di Biumo, stracitata, per la quale ha anche redatto un catalogo.

Chi compone il "comitato di progettazione" del centro ASK della Bocconi e degli studi lì condotti da Stefano Baia Curioni (vedi pag 94 e pag 120)?

Stefano Baia Curioni - ASK, Università Bocconi,
Patrizia Brusarosco - Viafarini Docva,
Anna Detheridge - Connecting Cultures
Pasquale Leccese - Startmilano,
Paolo Rosa - Studio Azzurro,
Gabi Scardi - Curatrice indipendente.
Detheridge e Gabi Scardi scrivono sul Sole 24 e la Brusarosco fa parte del solito circolo di Viafarini, dove la professoressa è di casa.

Ecco chi all'ASK coordina incontri:

Tavola rotonda
-
Coordina
Angela Vettese
Altro aficionado dei soliti giri: Pier Luigi Sacco. Poteva mancare? Lo trovate a pag 70, ben posizionato tra figure note a fargli da cornice in foglia oro. Per tacere degli artisti taggati "Italian Area" incollati come figurine tra le pagine di questo libello, gioiello d’integralismo lobbistico come pochi altri.
L'ininfluente tramutato per incanto in autorevole provoca esiti esilaranti - vedi il "buon risultato" di visitatori della GAMeC-Bergamo (un Di Pietrantonio a caso...). Arduo cercare qualche nome (tra i non già celebri) segnalato unicamente per il suo valore intellettuale.
Immaginatevi un critico letterario che nel redigere un saggio sulla letteratura contemporanea adotti i medesimi squallidi calcoli da bottegaio citando al completo scrittori e amici della propria casa editrice e omettendo gli altri! Con queste premesse, verrebbe da pensare che il libro contenga una sorta di press kit pubblicitario, sommato a un'ingenerosità intellettuale cronicizzata. Roba da far inkavolare anke le scimmie urlatrici del Tikal. Invero, ogni pagina nasconde un tranello o un inciampo, nel goffo tentativo d'incoronare talune sperimentazioni del secondo Novecento quali punto di non ritorno, paradigmi validi per l'intera storia dell'arte. Peccato che sulla base di tale assunto i conti, alla fine, non tornino. Intendiamoci, trattasi di puro calcolo. Il rigore teorico c'entra poco. Le idee bloccate consentono d'impedire ogni ricambio e rinnovamento dei colletti bianchi dell'arte, la lobby parassitaria di tante e tante istituzioni pubbliche. Riconoscere la validità di nuove idee significherebbe dare spazio anche a chi le ha formulate. Ecco quindi in quale accezione va inteso qui il termine "lobby".

Interessante anche verificare come i circuiti istituzionali d'arte contemporanea italiani si coagulino però trasversalmente in gerarchie piramidali - vedi il sito dell'associazione dei musei d'arte contemporanea italiani.
Una piattaforma d’incontro tra istituzioni che sono e devono rimanere indipendenti non richiederebbe di per sé formule gerarchiche, eppure...

Questi gli ingredienti del pattume teorico di Vettese. Barbarie massimalista, lobbismo sfrenato, anti-metodo cronicizzato, sete di palcoscenico e di accentare potere bulimica a discapito di ogni altra figura, artisti compresi, cui va sommata la classica attitudine dell'intellettualino di verbalizzare ogni fenomeno in senso didascalico e di considerare quei fenomeni inadatti a tale schematismo cultura di serie B. Essendosi specializzati in un piccolo segmento dell'arte visiva contemporanea, con questo bagaglio risibile pretenderebbero di dare giudizi su ogni cosa.
Argomentazioni talmente assurde da rasentare l'impostura intellettuale.
Della performance Abramovic/Ulay "Rest Energy" potremmo dare innumerevoli interpretazioni, dalla narrazione mitologica al saggio ginnico, eppure il testo ci scodella, confezionato su misura, il racconto sociologico da settimanale ...
- attenzione - articolo in via di stesura...