Monday, August 8, 2016

Should Bauhaus be considered an Order of Architecture?

Should Bauhaus (and modern architecture) be considered an architectural order?



http://archinect.com/forum/thread/36407294/should-bauhaus-be-considered-an-order-of-architecture


from the forum :
>>>Frank your remarks are interesting and supported by what we can read in architecture's history books, but... the present is not a history book...

>>>i would overturn the question: what if the present would rather suggest us to review and widen our notion of "architectural order"? The line - Bauhaus - Mies van der Rohe - less is more - etc... has, in the course of time, codified 1 (anti-order) style that, in the end, became an architectural order itself, and the proofs are its duration, permanence, constancy.

Thursday, August 4, 2016

La cattiva letteratura di Riccardo Caldura.

Caldura firma interventi che non possono essere ricondotti alla critica d'arte, e sarebbe opportuno non confonderli con essa. Si tratta piuttosto di testi ibridi che utilizzano l'arte visiva come pretesto, reperto inerte sul quale, più che applicare, direi proiettare astratti esercizi retorici (come nel pezzo sul ruolo del “direttore artistico-Biennale”) sovraccarichi di nomi altisonanti, schemi gerarchici, scenari globali, e condizionati di orientamenti ideologici. 

Esercizi accademici in cui l'unica risposta possibile a ogni ipotesi sembra sia un professorale scetticismo dubitativo e dove risulta assai difficile rintracciare un atto interpretativo compiuto, riferimenti che possano introdurre alla comprensione del linguaggio visivo e di una poetica d'artista: le opere d'arte esposte in Biennale sono assenti nell'articolo, resta un mistero perché ne facciano da corredo illustrativo, quando il discorso potrebbe svolgersi anche in loro assenza.

In quanto scrittura ibrida, non è ascrivibile ad alcuna disciplina riconoscibile, se non quella bolla di cattiva letteratura che tenta di riportare la fenomenologia delle arti visive (e la radicale alterità di pensiero che rappresentano) entro i dispositivi propri del linguaggio verbale, eludendo il metodo critico, inoltre gravandola di un'enfasi tale da evocare tragicomici bollettini meteorologici: 

"Alla Biennale di Enwezor può davvero essere affidato il compito di cogliere non solo l’orizzonte presente, ma anche le lontananze, il diradarsi delle foschie”.

Telefoneremo al Colonnello Bernacca. 

Le conseguenze? Gli esiti di tale approccio emergono chiaramente nella recensione dedicata alla mostra di Danh Vo a Punta della Dogana. Dopo averci informato sulle sue personali (non di un artista) congetture osservando mozziconi di sigaretta incastrati tra i masegni veneziani, l'autore confessa di non aver “compreso” la mostra, a suo dire a causa dell'assenza di chiare didascalie esplicative accanto ai titoli di opere insufficientemente verbalizzate per le sue aspettative. Davvero, se le opere lo lasciano indifferente, non c'erano cicche su cui filosofeggiare alla Biennale di Enwezor?

 "Me ne sono venuto via dalla mostra di Danh Vo guardando la griglia ordinata dei masegni, le pietre che pavimentano Venezia. Ogni tanto nell’intersezione fra pietra e pietra un resto di sigaretta, un paio di petali caduti del giardino accanto alla strada, una vaga impronta di gomma masticata. Anche la luce giocava un suo ruolo, dato il cielo di nuvole che andavano e venivano”. 

Perfetto incipit per un brutto romanzo. Meno come introduzione a una riflessione sull'arte.

L'opera e il suo doppio

Il suo "antimetodo" si fonda su una costante preoccupazione dimostrativa: l’arte, secondo Caldura, deve costituire la didascalica appendice visiva di un’etichetta già data, certa, dogmaticamente predefinita. Non è dunque l’opera nelle sue evidenze formali a essere oggetto di interpretazione, ma il doppio verbalizzato che le viene associato: senza didascalie esplicative appiccicate ai muri, l’opera per lui sembra semplicemente non esistere.

«La critica non ha niente di normativo e utilizza le definizioni generali solo per arrivare al caso singolo», scrive Alfonso Berardinelli. 
Per Caldura, al contrario, le definizioni generali, professoralmente stabilite e, manco a dirlo, depurate da ogni nozione di paradosso, negativo o ludico, diventano il cardine di una prassi fondata su un uso strumentale dell’arte e degli artisti.
Un antimetodo alimentato da una profonda avversione verso la radicale alterità rispetto ai linguaggi verbali che l’arte visiva incarna. Da essa vengono accuratamente espunti proprio quei dispositivi che ne garantiscono l’autonomia come forma d’arte. In altre parole, la posizione propria dell’intellettuale che considera fenomeni non verbalizzati, o non facilmente verbalizzabili in forma didascalica, come cultura di serie B.
Il vuoto di poetica d’artista nelle opere presentate nelle sue mostre? La diretta conseguenza di opere scelte a fini strumentalmente dimostrativi, quasi pittogrammi di icone web che, una volta "cliccate", rinviano lo spettatore al testo verbale che ne giustifica l'esistenza. L’opera viene selezionata proprio per la sua inespressività, in quanto mero correlato visivo di una narrazione già stabilita.

I suoi testi critici, di una noia micidiale e infatti poco letti, assolvono alla funzione di accreditare la penna conformista che li redige nei circuiti dei colletti bianchi, pseudo-intellettuali di stato e funzionari contigui al partito di turno.
L’avversione verso gli artisti e il loro ruolo sociale emerge con ancora maggiore astio nei rari casi in cui il confronto diventa reale e non simulato, privo di quei confini protettivi che gli intellettuali di Stato costruiscono intorno a sé.
 
Ecco la risposta che ho ricevuto in un forum:

"Riccardo Caldura
Puntuale come la grandine sull'uva a fine agosto da qualche parte sul web ti arriva il commento livoroso e inutilmente polemico di un personaggio che a Venezia ha assai dubbia credibilità: tale D.S.K., fratello in ombra di un ben più noto protagonista della vita culturale veneziana. Che dire? Guardare il cielo, sopportare con pazienza e tirare innanzi...pensando a Francesco e alla pace nel mondo, sperando che anche Kos riesca a trovare un giorno una qualche serenità (e di meglio da fare che inventarsi blog miserelli grazie ai quali provar a supportare i suoi lavori)".

 
È evidente la scorrettezza argomentativa rivolta contro un artista a cui sembra non sia concesso esprimere liberamente il proprio pensiero, quasi appartenesse a una casta inferiore, oggetto di giudizio calato dall’alto. Ancora più inquietante è il ricorso al retrogrado familismo italico, che chiama in causa persone a me legate da vincoli di parentela: una logica secondo cui non contano ciò che una persona dice o fa, ma il clan a cui viene ricondotta. Questo meccanismo è il modo più efficace per avvelenare il clima del dibattito e per lanciare un messaggio intimidatorio a quegli artisti che, pur avendo un’opinione, preferiscono tacere per timore delle conseguenze.

Un artista non “supporta” il proprio lavoro attraverso blog di dibattito: al contrario, tali strumenti risultano controproducenti in termini di carriera, poiché nei circuiti ufficiali dell’arte la delega della parola alla critica è considerata fondamentale. È una prassi tipica dei colletti bianchi, abituati da decenni a parlarsi addosso in ambienti autoreferenziali. Caldura non dispone degli strumenti necessari per analizzare queste dinamiche del presente, essendosi cristallizzato in una modernità idealizzata, priva dell’elaborazione dei conflitti e dell’utopia che le erano originariamente proprie, ma conservandone al contempo alcune derive di strumentalizzazione ideologica.

Secondo Caldura, la verità artistica coinciderebbe con la credibilità: una concezione persino pre-ottocentesca.

Quando costoro parlano di “arte-pensiero”, in realtà intendono il proprio “pensiero unico (maschile)", non certo un’autentica elaborazione teorica. Così facendo, riducono i circuiti del contemporaneo a una bolla separata, funzionale a rinviare indefinitamente il confronto, percepito in modo catastrofico come “grandine sull’uva”. Molti, come lui, traggono una rendita di posizione dall’impreparazione del grande pubblico: se un taglio di Fontana può ancora scandalizzare alcuni, i numerosi Caldura dell’oggi, invece di accompagnare il pubblico nel superamento dei pregiudizi, speculano su questo divario informativo. La loro “missione” consiste nel sostituire i vecchi pregiudizi con pregiudizi nuovi.

Le forme fluide dei blog d’artista vengono liquidate come incomplete, manchevoli, persino “misere”, in quanto modalità di comunicazione non sorvegliate, non ufficiose né ufficiali, non istituzionalizzate. Sono frame che includono elementi frammentati, errori e contraddizioni dei processi creativi, rendendoli visibili: l’esatto opposto dei dogmi chiusi e dei cliché delle definizioni generali, in cui l’errore viene sistematicamente espunto. Ancora una volta, emerge una rigidità di pensiero fondata su stereotipi, tra i quali va rubricato, alla lettera F, anche quello del “fratello di”.

Assistiamo attualmente a una proliferazione di filosofi mancati che si occupano di arte contemporanea: approfittando della grande confusione terminologica e metodologica del settore, riescono a conquistare spazi di visibilità senza il rigore teorico e la capacità innovativa richiesti in altre discipline. Il meccanismo è semplice. Un trucco. Manipolare gli argomenti con uno stile affabulatorio e aggiungere al discorso qualche citazione altisonante, offrendo così al potere culturale un alibi per estromettere i portatori di un’alterità radicale. Operazioni che trovano spesso vittime numerose e consenzienti, poiché il talento e l’alterità risultano scomodi a molti... in Italia, a moltissimi. Il talento autentico oppone una naturale resistenza alla strumentalizzazione.

Quando un'istituzione pubblica cade sotto l'influenza di tali figure, solitamente smette di fare informazione e inizia la propaganda di stato contro l'autonomia dell'arte (parallelamente alla censura di ogni tendenza che contraddice tale assunto) com'è accaduto alla Galleria Contemporaneo di Mestre dove abbiamo visto addirittura la presentazione di una lista politica vicina al professore, fatto di una spregiudicatezza e sfrontatezza tali da non trovare eguali tra consimili spazi pubblici d'arte, che tuttavia risulta rilevante soprattutto da un punto di vista teorico, per il tentativo di allineare la fenomenologia dell'arte visiva ai codici verbali del consenso e del potere costituito.

È importante comprendere come la sua posizione implichi una netta avversione verso l’alterità che l’arte visiva incarna. Ogni fenomeno del sapere deve essere ricondotto agli automatismi del linguaggio verbale: nell’insistente reiterazione dei medesimi modelli si delinea una sorta di logica di scambio simbolico, un fallocentrismo del pensiero unico (maschile) volto a disinnescare l’altro-da-sé (l’altra-da-sé), percepito come potenziale negazione del proprio “centro”.

Un edificio critico così pencolante dovrebbe trovare il proprio cemento nella ricorrente apologia del fattuale, sempre assertiva e celebrativa del dato, del percettivo (emblematica è la sua ossessione per le “misurazioni”). Tale insistenza funziona da schermo, da copertura per la mancata elaborazione di quel nucleo negativo, perturbante e paradossale dell’arte visiva, la cui sorvegliatissima omissione appare come una rinuncia. È come se gli strumenti di cui la critica dispone, lo sguardo “laterale” sull’opera, quello specchio che consente di fissare la gorgone del negativo senza esserne pietrificati, non servissero ad altro che a moltiplicarne la potenza.

Privata di ogni conflitto interno, selezionata attraverso la categoria dell’“etichetta” esornativa del linguaggio verbale, l’arte finisce così per assumere una veste che ripropone, in chiave midcult, le sperimentazioni del secondo Novecento. Ci muoviamo dunque nelle acque del neomoderno, solo apparentemente placide: stilemi ormai ampiamente acquisiti di un conformismo sospeso tra giornalismo d’arte e divulgazione; parimenti a ogni conformismo trova, unico mezzo di distinguersi, l'esserlo dogmaticamente. 

Per Caldura, l’arte visiva non possiede un valore conoscitivo, non costituisce un ponte gettato verso l’altrove: la utilizza per riaffermare la propria centralità.


>>>la cicca filosofica mentre le nuvole andavano e venivano

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